Nell’adozione degli atti di pianificazione urbanistica occorre tenere in considerazione anche i principi contenuti nella direttiva 123/2006/CE (c.d. Bolkestein) in materia di liberalizzazione del mercato. È quanto sostenuto dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 2815 del 25 marzo 2024, con cui ha accolto il ricorso di un’impresa contro il diniego da parte di un Comune di una richiesta di cambio di destinazione d’uso – da industriale a vendita al dettaglio – di alcuni locali di sua proprietà.
Nel caso esaminato dai giudici, la Provincia aveva emanato una variante al Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp) inserendo limiti e vincoli alla possibilità di cambi di destinazione d’uso e di nuovi insediamenti per attività commerciali di vendita al dettaglio.
Il Collegio ha ritenuto tale previsione in contrasto sia con quanto disposto dalla legge regionale Abruzzo n. 49/2012 – la quale ammette i mutamenti d’uso tra destinazioni compatibili o complementali, ricomprendendo tra queste le destinazioni produttive e gli esercizi di vicinato – sia con la direttiva Bolkestein e la relativa norma di attuazione nazionale (D.lgs. 59/2010).
L’obiettivo della direttiva richiamata è quello di facilitare la circolazione di servizi all’interno dell’Unione europea; la disciplina, infatti, si riferisce “a qualunque attività economica, di carattere imprenditoriale o professionale, svolta senza vincolo di subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione anche a carattere intellettuale” (art.1 D.lgs. 59/2010).
In virtù del collegamento esistente tra l’oggetto del ricorso e la direttiva Bolkestein, i giudici hanno sostenuto che:
Da ciò ne discende che gli strumenti urbanistici possono individuare la destinazione dei suoli e le attività che possono esercitarsi su questi, ma qualora venga ammessa una particolare tipologia commerciale, non è legittima l’introduzione di restrizioni quantitative al numero di esercizi; tale limitazione infatti “non si configura quale prescrizione meramente urbanistica, ma si traduce in una limitazione ingiustificata e discriminatoria della libertà di stabilimento e della libertà d’impresa e in una regolazione indebita dell’offerta sul mercato”.